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Venerdì 13 marzo allo Spazio Kromìa di Napoli inaugurazione della mostra fotografica “Samsara” di Antonio Gibotta

Antonio Gibotta - Holi Festival

Antonio Gibotta – Holi Festival

Venerdì 13 Marzo, alle ore 19.00, presso lo Spazio Kromìa (via Diodato Lioy 11, piazza Monteoliveto, Napoli), in collaborazione con CONTROLUCE Napoli, inaugurazione di “Samsara”, la prima personale napoletana del pluripremiato fotoreporter Antonio Gibotta.

Samsara è la ruota induista del ciclo di vita, morte e rinascita.
In mostra, dodici scatti realizzati in India, in occasione di una cerimonia di cremazione e dell’Holi Festival, il rito-celebrazione induista della primavera, inno ai colori e alla vita, presentati al pubblico

Info:
08119569381
3315746966
info@kromia.net
www.kromia.net

Nota a cura di Diana Gianquitto
Il corpo è una danza, è la foto è corpo.
Sentito nel suo fiotto di vita, nel suo farsi arteria pulsante di gioia, trasmissione del prana niversale.
Oppure nel suo piombare in vuote voragini di dolore, assorbito e dissolto in scoscesi crepacci emorragici in cui smarrire emotività e forze, ma solo in attesa di ritrovarle, innalzate nella restituzione della propria energia e olos all’Universo tutto.
Vita e morte, gioia e dolore, si tessono insieme, e a stringerle è il perdurante moto degli animi che li attraversano, avventurandovisi.
Il movimento, negli scatti rubati alla vita di Antonio Gibotta (Avellino, 1988), è corpo tanto quanto le membra che lo hanno prodotto, gesto e quasi danza – di sinuosa grazia ed elastica energia – che si solidifica in segno rotondo, plastico, di tale tornita pienezza e potenza visiva da sembrare persino potersi toccare.
E un attimo dopo, da scultoreo il movimento diviene segno, sintetizza tutta la superficie fotografica – che nel caso di Gibotta, data la sua consapevolezza di atemporali elementi della strutturazione architettonica, spaziale e percettiva della visione, è più che spesso possibile assimilare quasi a una superficie pittorica.
Holi Festival è la liberazione della vita, dell’energia, della prepotente e proterva, salvificamente irreducibile, pretesa della felicità.
Durante Holi, tra danze e musiche per le strade le persone si cospargono di polveri coloratissime miste ad acqua, volutamente dimenticando, nell’abbandono della dimensione ludica, ogni discriminazione di casta o sesso.
La cerimonia di cremazione induista è solenne immersione nel dolore, precipitazione ardita nelle viscere della mancanza, tuffo senza reti.
Accessibile solo al coraggio di chi sa che mai assenza è più presente di quella che si stringe al proprio cuore ogni giorno, e di chi vede nel fuoco dissolversi gli elementi di cui è composto ogni essere, affinché siano restituiti liberati all’abbraccio dell’Universo, e quindi anche di chi resta.
Antipodi apparenti, Holi e cremazione, in realtà congiunti dalla libertà di sentire.
Mai tavolozza umana sarebbe stata più adatta a farsi pigmento nella vibratile espressione fotografica dell’artista, locuzione essa stessa dell’insopprimibile movimento e respiro dell’esistere, in ogni suo vitale o sofferto fiato.
Di questa pulsante materia umana, prima ancora che antropologica, il giovanissimo – ma sorprendentemente consapevole – artista trae dal reportage una forma d’arte, dimostrando ancora una volta la sua “particolare sensibilità per il ritratto e per l’indagine di fenomeni striscianti o palesi dell’attualità, oltre che per l’intercettazione di atmosfere epidermiche e profondità strutturali di culture e paesi, che riesce incredibilmente a catturare con eguale consapevolezza tanto in un monocromo dai profondi e misterici chiaroscuri, incastonati di vellutati riflessi e velature, così come in una policromia ricca, preziosa, sensuale e cangiante come seta”.
Se il gesto fluisce in segno – un segno autonomo e strutturante come quello di Franz Kline o Hans Hartung – il colore, così come nei monocromi la luce e l’ombra, diviene spazio e materia, rendendo l’esito visivo di Antonio Gibotta molto più informale di quanto a prima vista esso non appaia: la cromia, i bianchi e i neri assumono solido valore semantico in sé e per sé, giungendo a strutturare poderosamente la gestione dello spazio e ad assurgere ad autonoma valenza espressiva, nonostante il permanere saldamente radicato e riconoscibile del loro punto d’origine nel dato reale.
La cangiante policromia, così come il contrastato vissuto di bagliori e tenebre, si fa materica, ma di una materia serica, dalla sensualità trascinante, ipnotica e inebriante.
Caravaggeschi per intensità emotiva e simbolismi luministici degli improvvisi chiassosi lampi, i chiaroscuri sono però indagati non solo nelle determinate nettezze, ma anche in ogni minima variazione soffusa e vellutata dei grigi, rendendo quasi pigmentato l’uso del monocromo da parte dell’artista, e facendo emergere come un ricordo, un ancor persistente sapore di vita e colore anche nella buia stagione della sofferenza.
Eppure, il gusto per la ricchezza e la preziosità dei broccati visivi policromi o monocromi di Gibotta non scivola mai in vacua decorazione.
Come per i patterns dai mille riflessi di Klimt, nella gloriosa stagione della Secessione viennese, o per quelli monocromatici e di elegante sinteticità analitica del Nabi Félix Vallotton, a entrambi dei quali la formalizzazione del giovane artista è paragonabile anche per quel peculiare fenomeno di appiattimento, in forza di colore o di chiaroscuro, su un unico piano sbalzato in avanti di foreground e background, assimilati dalla prevalente potenza comunicativa della cromia o dei contrasti o sfumati di luce e ombra.
Un unico piano unificato ma dinamico e non statico, nutrito e arricchito da slittamenti lenti e apparentemente impercettibili – dischiusi solo a una fruizione attenta – dei livelli, paragonabili agli illusionismi spaziali e percettivi di Rothko, in un continuo gioco ballerino, e continuamente sfidante per la percezione, delle prossimità.
La padronanza dello spazio è violentemente sicura, la superficie, di cui l’arte di Gibotta si è impadronita, è agita, domata fino a docilmente trasformare i vuoti in pieni e i pieni in vuoti, plasmando l’elemento spaziale – così come la componente luministica e cromatica – come fosse materia, nuovamente avvicinandosi più di quanto a un primo sguardo ipotizzabile all’Informale, stavolta nella sua declinazione spazialista, con euritmia e padronanza rinascimentali.
Astrazione – scaturita dall’assolutizzazione dei valori di segno, spazio, luce e colore – e figurazione sono del resto in equilibrio perfetto nell’artista, facendo tesoro della lezione proprio di sommi esempi rinascimentali come Piero della Francesca o Antonello da Messina.
Suggestioni cinestetiche, luministiche e cromatiche fluiscono ininterrotte, innalzandosi in nube e pulviscolo continuo energetico di fluidità organica, inarrestabile e insopprimibile come la vita celebrata in Holi, nel suo sbocciare esplosiva, e onorata nella cremazione, nel suo invernale smarrirsi per poi ritrovarsi: non vi è Vita più accesa di quella consapevole della fine, né alcuna Morte può mai essere nobilmente tale se dimentica del suo essere passato, e futura trasformazione, di Vita.
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7 marzo, 2015 Posted by | Agenda Eventi, Arte, Campania, Fotografia, Italia, Napoli, Regioni | , , , , , | Lascia un commento